20 giugno 2011
Lorena Garzotto Gruppodonne Presidio Nodalmolin Vicenza
Terre - Mutate: L’Aquila e Vicenza
Lo sapevamo, dell’umiliazione dell’Aquila da parte del potere, del controllo militare, della disinformazione e della propaganda: chi di noi era andata nei giorni subito dopo il terremoto a portare aiuto ce lo aveva raccontato. A me sembrava un’esagerazione. Ma le scritture aquilane, le parole delle donne incontrate nei due giorni, la voce rotta e la commozione di Valentina nell’introdurre il gruppo di discussione ci hanno fatto percepire la verità di quell’esperienza, toccandoci profondamente. Abbiamo rivisitato nelle sue parole la violenza sulla nostra vita e sul nostro territorio, riconosciuto la stessa umiliazione vissuta come vicentine, come cittadine di una città violata e svenduta agli interessi politici ed economici, in spregio all’etica di pace, all’ambiente, alla convivenza, al buon senso. Abbiamo raccontato della nostra militarizzazione, dei controlli a cui siamo sottoposte, della licenza con cui i carabinieri ci chiamano per nome, dell’essere seguite e intercettate, delle denunce. E dopo aver lottato strenuamente per anni contro l’imposizione della nuova base (“La madre terra si ribella a una base di guerra”), voluta da chi si sfrega le dita dicendo “che porta schei”, dopo aver dedicato moltissimo tempo ed energie a questo obiettivo, sapendo bene quale idea c’è dietro, ci siamo poi trovate ad assistere impotenti alla scelta di un modello di mondo in cui non crediamo, da cui ci dissociamo profondamente. E guardiamo con sdegno, con rabbia, con orrore, al crescere del bubbone sulla nostra terra – mutata dalla militarizzazione: ma non con rassegnazione. Noi vicentine, pur nell’incommensurabilità del disastro terremoto, abbiamo sentito e condiviso l’umiliazione degli aquilani come profondamente nostra, per aver vissuto la stessa espropriazione dei diritti, l’occultamento della verità, il controllo sulle nostre vite e i tentativi di “sradicare il dissenso”. Abbiamo sentito da subito un legame di sangue con gli aquilani in lotta per la loro terra, per la dignità di tutti, nel vuoto della politica che non sa difendere il bene comune, raccogliere le richieste dei cittadini, e che risponde con la forza, il controllo, sulla popolazione. Così riconosciamo la realtà dell’Aquila come anche nostra. E abbiamo gioito ad ogni entrata con le carriole, ad ogni ripresa degli spazi.
Il dramma dell’Aquila è stato, oltre la disgregazione del suo tessuto, l’inquietante sperimentazione di un modello di controllo totale sui cittadini in nome della “protezione civile”. Era il ricevere assistenza, per sopravvivere con pasti caldi, latrine, coperte, ma senza avere la possibilità di occuparsi di sé o degli altri, senza potersi sentire utile nel riprendere in mano per quanto possibile il quotidiano spezzato. La gente fuori non sa di questo, e quando lo racconti ti guarda incredula. Infatti, la propaganda, la demagogia hanno usato la disinformazione in dosi massicce per dire che tutto era a posto, tutto normalizzato: chi nelle C.A.S.E. nuove, chi negli alberghi, niente più tende, sbaraccate in 24 ore senza preavviso. E come diceva Paola nell’incontro che abbiamo fatto coi vari gruppi di ritorno a Vicenza, è difficile protestare quando si deve essere grati per quello che hai ricevuto in una situazione di privazione.
Da questo scenario le donne della terra-mutata hanno chiamato a raccolta il 7 e 8 maggio le altre che nei territori tengono viva la voce dell’impegno, del pensiero e del desiderio, che lottano per ambienti e convivenze migliori. Donne toste, donnone, mi veniva da pensare mentre ascoltavo i discorsi importanti che giravano tra noi, pensieri forti.
Qualcuno, nel gruppo “Donne resistenti” dentro all’improbabile panineria “Ingordo laico” in centro storico, ricorda una frase delle Madres de Mayo, che per 33 anni hanno chiesto giustizia, passando per “locas”, pazze, e poi hanno vinto: “I tiranni contano sulla nostra tristezza e impotenza”.
Ritagli
A volte la domenica gli aquilani vanno a vedere la loro città, le loro strade, e si raccontano cercando di ricollocare i luoghi al loro posto, di ricostruirli nella mente com’erano. Qualcuno magari tenta di recuperare cose tra i muri incerti, come bollette, per dimostrare alla burocrazia che abitavano lì da tempo e hanno diritto ad un’altra casa. Incrociano talvolta i turisti delle macerie che vanno a visitare quello che resta della vita di un tempo, un po’ come i turisti guardoni della scena di un crimine.
Gli occhi umidi di Elena, di ritorno da uno dei suoi pellegrinaggi alla Casa dello Studente. Il suo silenzio assorto davanti alla chiesa di S. Bernardino. La sua casa, dove ci aveva ospitati durante l’assemblea di Rigas l’anno scorso, appena toccata dalle onde sismiche, ma tutto intorno distruzione. Lei, pianista di una terra ricca di musica, per lungo tempo non era più riuscita a suonare.
Aveva un che di dolente la figura di donna dai capelli ramati, vestita con cura, che veniva verso di noi. Alla nostra richiesta di indicazioni per la Casa dello studente, (Rosella poi dirà che non avremmo dovuto, lo sentiva), la signora si ferma, gentile, ma dice subito, tra il rimprovero e l’afflitto, perchè tutti vogliono vedere la casa dello studente?, sono morte tante altre persone, come nel palazzo di fronte, crollato sopra famiglie intere. Ci sentiamo in imbarazzo, ad apparire, come tanti, un po’ le guardone del dramma, a chiedere il luogo mediatico. Cerchiamo di dire che no, siamo lì per tutti, che capiamo, sappiamo… ma ci resta la sensazione di essere fuori posto in questa tragedia. D’altronde come immaginare la distruzione, il restare senza nulla, il quotidiano, i tuoi cari…. Puoi solo provare, ma non è la tua esperienza. Noi che torneremo a casa. Io ho provato tante volte a immaginare la tua casa caduta, la città distrutta, le strade chiuse, non avere più le tue cose, o stare in una tenda con tanti altri, senza più nulla di tuo. Nulla delle mille cose di cui è fatta una vita. Una cesura tra il prima e il dopo. La donna racconta con poche parole quanto è dura, quanto è difficile uscire di casa in questa città interrotta. Città interrotta, vite interrotte. La fatica di vivere. Prendendo psicofarmaci per sopravvivere. Dopo, avrei voluto abbracciarla.
Davanti la Casa dello studente, con le sue stanze slabbrate, senza una parete, in bilico sul nulla, gli armadi pencolanti, i letti ancora lì, a mostrare oscenamente un pezzo di intimità; in un’aiola dei fiori messi da uno dei gruppi dicono “mai più”, una poesia invita a non guardare da turisti nelle pieghe di questa città morente. E’ una visita la nostra quasi furtiva, come a spiare una cosa privata, segreta. Con un senso di straniamento e di pudore tocco un mazzo di chiavi, un peluche, un cappello appesi alla rete, appartenuti ai ragazzi. Così come tante storie, tanti messaggi, foto, oggetti affidati a queste transenne creative a raccontare .
Noi dopo a incontrare le altre donne nei gruppi di studio nelle varie “Stanze”, con questi ritagli di vita in mente. Un’azione politica all’insegna della resistenza. Resistere alla violazione della terra, alla violazione dei corpi e delle menti. Ma in modo resiliente, creativo, flessibile. Superando anche il dolore, trasformandosi senza irrigidirsi. Pensando a costruire, perché nulla potrà mai essere ri-costruito come prima. La crisi come occasione, qui come a Vicenza. Oltre la rabbia, oltre il dolore e la sconfitta. Uscendo dal vittimismo, dal pietismo, anche dalla solidarietà che ti fissa in un ruolo. Recuperando la quotidianità e la soggettività come fanno le donne, perché anche “la convivialità è rivoluzionaria”. Pensiero che condividiamo, perché è nello stare insieme, nel guardarsi e parlarsi, nel condividere cibo e discorsi che si possono lanciare ponti, che si possono costruire anche le grandi cose. E allora sono contenta di avere incontrato lo sguardo severo e addolorato di quella donna, perché mi ha aiutato a capire, riempiendo lo spazio tra la nostra presunzione e la realtà della vita vera.
Il giorno dopo, alla fine del gruppo, il Dies Irae, e una marcia musicale con la “Resistenza Musicale Permanente” verso la Casa delle Donne, cantando, certo più stonati dei musicisti ma con molta passione, il Và pensiero. La voce veniva intensa e commossa al “Oh mia patria sì bella e perduta” e “arpa d’or dei fatidici vati” ma anche al Bella Ciao, tra quei palazzi diroccati, tenuti insieme da ponteggi a migliaia. Una metafora straordinaria. Resistere.
Anche Giovanna Marturano, piccola grande partigiana che “resiste da 99 anni”, dondolando le sue gambe sotto la sedia davanti al camper, lancia l’invito “Ragazze incazzatevi, a esser troppo buoni non si ottiene niente”; e propone di fare la staffetta, (così come lei aveva fatto, col veleno nei calzettoni datole dal padre nel caso fosse caduta nelle mani nazifasciate), tra le varie realtà resistenti nei territori.