Le donne di Maggio
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10 novembre 2011
Cristina Mencarelli
Dall’Aquila un progetto politico per rifondare tutte le Terre-Mutate che esistono in Italia. Terre sfruttate e militarizzate che si aprono al desiderio di trasformazione e ricostruzione.
Adesso parlare de L’Aquila non va veramente più di moda.
Adesso che la catastrofe del Giappone ha sbiadito ogni dolore, ogni lutto, ridimensionato.
Adesso non si va più con le telecamere accese a promettere un futuro migliore.
A L’Aquila c’è quello che resta. Resta l’inganno. Il silenzio. Il giorno del non ritorno.
Una città devastata dalla terra che trema è il posto ideale per raccontare la deriva autoritaria dell’Italia, la violenza della propaganda, l’impotenza dei cittadini, la militarizzazione delle menti, la censura operata dai mezzi d'informazione, la passività di una parte della popolazione che somiglia alla paura, l’esibizione dei buoni sentimenti e le promesse miracolistiche, l’appesantimento burocratico per ogni azione che venga dagli abitanti, un potere locale sempre più impossibilitato a svolgere qualsiasi azione per la mancanza di mezzi finanziari, la situazione di ricatto in cui vive una popolazione a cui sono stati distrutti, insieme alle case, la fonte di sostentamento, i luoghi di lavoro, i luoghi della socialità tradizionale, i poteri economici forti quelli che possono attendere finché gli abitanti non saranno completamente sfibrati.
Un concentrato dei disastri italiani, un prisma che riflette ogni bassezza di questo Paese.
A due anni dal terremoto che ha distrutto L’Aquila e il circondario, dovrebbe infatti essere giunta l’ora di fare qualche bilancio, sulla sistemazione delle persone senza casa e senza lavoro, sulle vicende giudiziarie sulle strutture crollate, sulla ricostruzione del centro storico, sulla gestione dell’emergenza, sulla disgregazione del tessuto sociale e sul disagio dei giovani e degli anziani. Questo è quello che dovrebbe succedere in un Paese normale.
Ma siamo in Italia: il Paese dell’improvvisazione e della farsa, il Paese dove conta più ciò che appare di ciò che è, il Paese dove una sciagura per molti può fare la ricchezza di pochi, dove una città devastata da un sisma diventa una sorta di "laboratorio" dai contorni inquietanti.
In uno Stato padrone come questo, che impone soluzioni di convenienza invece di ascoltare le realtà locali, ci però sono cittadini ribelli che hanno voglia di riprendere in mano al propria vita, di ricostruire/ricostruirsi.
L'Italia che resiste ai manganelli con le carriole, con una visione altra di politica.
L'Aquila è emblematica perché racconta la resilienza al terremoto fisico e a quello strisciante che sta deformando il tessuto democratico dell'Italia, la necessità di impegnarsi per beni comuni come la cittadinanza attiva, la terra, l’acqua, l’informazione.
Alla sensazione di disfacimento nazionale e di una città frantumata, disgregata, squassata e poi rimasta come immobile, si accompagna la percezione forte di un movimento incessante e rigeneratore.
Questa voglia di vivere e non di sopravvivere mi hanno comunicato le aquilane che dal 6 all'8 maggio hanno invitato tutte le donne italiane nel centro storico dell'Aquila.
Da terremotate a "Terre Mutate” perché il terremoto ha mutato non solo il territorio ma soprattutto queste donne, che dopo il lutto e la tragedia si sono rese protagoniste della ricostruzione degli spazi, dei luoghi e dei tempi della quotidianità e delle relazioni, con un desiderio e una forza eccezionale di riprendere e riprendersi la vita.
Il comitato donne “Terre-mutate” dell’Aquila (che riunisce Donne in nero, Biblioteca delle donne Melusine, Centro antiviolenza) ha così accolto oltre 600 donne accorse da tutta Italia per animare - nel senso di restituire anima, respiro umano - ad una città ostaggio di un un vuoto di vita che è difficile da descrivere. Per due giorni hanno tessuto una fitta trama di incontri, riflessioni, osservazioni, esplorazioni della città.
Condividere luoghi e spazi pensati e gestiti da altri, di una città tuttora sotto presidio militare e priva di un piano di ricostruzione, è stato alla base del confronto sviluppatosi nelle “stanze” dei seminari, denominate come quelle della futura casa.
Un appello a progettare insieme nuovi modi di abitare, a trovare le parole per raccontare pratiche già in atto, per immaginarsi cosa può seguire, per scoprire un un nuovo modello di cittadinanza.